Descrizione
Il Giardino Botanico sorge nel 1984 per iniziativa della Comunità Montana della Garfagnana e riesce oggi ad ospitare le specie vegetali più significative del Parco dell’Orecchiella. Il Giardino si trova in un’ampia radura della faggeta sul versante meridionale della Pania di Corfino, ad una altitudine di 1370 m e si estende per una superficie di circa mezzo ettaro.
Nel Luglio del 2014 il Giardino è stato intitolato alla curatrice Maria Ansaldi, la quale, contribuì alla nascita del progetto stesso e fu una delle maggiori referenti fin da subito.
I numerosi e brevi sentieri che si snodano al suo interno percorrono i diversi settori nei quali il Giardino è suddiviso, che rappresentano i vari aspetti del paesaggio vegetale della Garfagnana appenninica
Sono state ricostruite le cenosi tipiche delle brughiere che vivono verso il crinale appenninico, con il ginepro nano (Juniperus communis) ed il rododendro rosso (Rhododendron ferrugineum) [foto 02], quelle delle rupi silicee, dove vivono la preziosa primula appenninica (Primula apennina) e la sassifraga alpina (Saxifraga paniculata), quelle delle rupi calcaree, che si colorano con le rigogliose fioriture della sassifraga meridionale (Saxifraga callosa) e della graziosa globularia delle Apuane (Globularia incanescens)[foto 03], e quella dei macereti, dove trovano il loro ambiente la vesicaria maggiore (Alyssoides utriculata), la violacciocca appenninica (Erysimum pseudorhaeticum), la violacciocca laciniata (Hesperis laciniata) e la linaiola (Linaria purpurea) [foto 04]. Sono inoltre ospitate le piante che vivono nelle zone umide e nelle torbiere, come i pennacchi (Eriophorum sp. pl.) [foto 05], il botton d’oro (Trollius europaeus), la calta (Caltha palustris) e la cardamine (Cardamine asarifolia). Un arboreto raccoglie le specie arboree ed arbustive presenti nei boschi dell’Orecchiella: il castagno (Castanea sativa), il faggio (Fagus sylvatica), l’abete bianco (Abies alba), l’abete rosso (Picea abies), il carpino bianco (Carpinus betulus), il carpino nero (Ostrya carpinifolia), il cerro (Quercus cerris), la ciliegia di monte (Lonicera alpigena) [foto 06], il ciliegio canino (Prunus mahaleb) [foto 07], ed il sambuco rosso (Sambucus racemosa). Nelle ampie radure è ben visibile la flora che caratterizza un terreno a lungo pascolato: diverse specie spinose, come il ginepro (Juniperus communis) e la rosa canina (Rosa canina), e ridenti fioriture di specie eliofile, quali l’orchidea maschia (Orchis mascula) ed il giglio di San Giovanni (Lilium bulbiferum subsp. croceum)[foto 08]. Altri due settori, l’Hortus sanitatis e l’orto fitoalimurgico raccolgono le specie vegetali utilizzate nella medicina popolare e nella tradizione culinaria della Garfagnana. Attualmente il Giardino collabora con il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e l’ Associazione Aquilegia Natura e Paesaggio Apuano ONLUS per il reclutamento delle guide botaniche (studenti, laureandi e laureati che provengono principalmente dai tre Atenei toscani); la collaborazione prevede anche la possibilità di sostenere esami, tirocini e tesi presso il Giardino Botanico e, seguendo un criterio corologico, la corretta gestione delle specie presenti nei diversi settori. È inoltre attiva una collaborazione con la Banca del germoplasma dell’Orto Botanico di Pisa che ha, tra gli altri, lo scopo di garantire la conservazione ex situ della flora regionale inserita in elenchi di priorità di conservazione. Con la recente riapertura del Rifugio Isera Orecchiella, di proprietà dell’Unione Comuni Garfagnana, è inoltre partita una proficua collaborazione con la creazione di eventi combinati Rifugio – Giardino sia a tema culinario che a tema divulgativo botanico-faunistico.
Come raggiungerci
Il Giardino si trova in località Isera, nel comune di Villa Collemandina, poco sopra il Rifugio Isera Orecchiella e a cinque minuti di auto dal Centro Visitatori del Parco dell’Orecchiella. Nel periodo ed orari di apertura siamo raggiungibili in auto o a piedi percorrendo un’agevole e piacevole sentiero nella faggeta.
Link alla posizione su google maps: clicca qui (se possibile inserire direttamente la mappa)
Orari
Siamo aperti i weekend di giugno e dal 1° luglio al 1° settembre tutti i giorni, in questo periodo è attivo il servizio di visita guidata con il seguente orario: 9:00-13:00 e 14:30-18.30.
Il resto dell’anno siamo aperti su prenotazione e possono essere organizzate visite guidate di gruppo, per comitive e scuole, contattando l’Unione Comuni Garfagnana
Il bosco più diffuso fino a 800-1000 m di altitudine è sicuramente il castagneto. Le “selve” hanno infatti, da tempi remoti, giocato un ruolo importantissimo nella vita delle popolazioni garfagnine che ne hanno tratto cibo, legna e lettiera, tanto da meritare al castagno (Castanea sativa) il titolo di “albero del pane”. Nel dopoguerra, la crisi dell’agricoltura e lo spopolamento della montagna hanno determinato l’abbandono del castagneto, e le “selve”, non più coltivate, hanno subito attacchi parassitari anche molto virulenti, quali il mal dell’inchiostro (Phytophthora cambivora) e, soprattutto, il cancro corticale (Cryphonectria parasitica). Più recentemente, grazie ad una riscoperta delle aree marginali ed allo sviluppo di un nuovo tipo di turismo, sono in atto progetti di recupero del castagneto. Seppure il castagno è da sempre presente in questi boschi, come testimonia il ritrovamento in fanghi palustri di polline fossile di castagno, le attuali “selve” sono il risultato della diffusione di questa coltura, che ha occupato lo spazio dei boschi di latifoglie (roverelle, carpini, cerri, frassini, aceri, noccioli) e talvolta anche della faggeta. I boschi di latifoglie vivono per lo più su terreni calcarei, in posizione soleggiata, e sono relativamente radi; hanno aspetto e composizione che varia a seconda del tipo di utilizzo che ne è stato fatto. Sull’altopiano del monte La Ripa è molto diffuso il nocciolo (Corylus avellana), e forma un nocelleto quasi puro. Altrove prevale il cerro (Quercus cerris), come sulle pendici sud- orientali della Pania di Corfino; nella cerreta si possono incontrare anche ornielli (Fraxinus ornus), maggiociondoli (Laburnum anagyroides) [foto 09] e carpini bianchi (Carpinus betulus). Le esigenze economiche delle popolazioni montane hanno comportato l’apertura di vaste radure nel bosco, soprattutto vicino agli insediamenti; oggi che le condizioni di vita sono cambiate, in queste radure, definibili come praterie intrasilvatiche, non più utilizzate per il pascolo e per le coltivazioni, vivono diverse specie di arbusti quali il prugnolo (Prunus spinosa), il corniolo (Cornus sanguinea), il biancospino (Crataegus monogyna) [foto 10], il ginepro (Juniperus communis) e la rosa canina (Rosa canina); un esempio di questa situazione è sulle pendici meridionali della Pania di Corfino. Ad altitudini superiori agli 800-1000 m, il paesaggio vegetale è dominato dal bosco di faggio (Fagus sylvatica), che riveste i versanti fino a circa 1700 m [foto 11]. Oltre al faggio è sporadicamente presente il sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia); il sottobosco è povero, e le poche piante, quasi tutte erbacee, fioriscono precocemente in primavera, quando i faggi ancora spogli lasciano filtrare a terra i raggi del sole. Sono gli anemoni bianchi (Anemonoides nemorosa) [foto 12], le fegatelle (Hepatica nobilis) [foto 13], e le scille (Scilla bifolia) [foto 14]. Nella faggeta si trovano ancora esemplari di abete bianco (Abies alba), a costituire lembi di bosco misto a faggio ed abete bianco, aspetti relittuali della copertura forestale che doveva essere ben più estesa nel post-glaciale, come testimoniano alcuni lembi relitti sull’Appennino e sulle Apuane; nel corso del tempo l’abete bianco è andato via via diminuendo, principalmente a causa della sua utilizzazione e della relativa difficoltà a rinnovarsi ed a competere col faggio.
Le carbonaie
Le faggete sono state sfruttate, fino ad un recente passato, per la produzione di legname. Nei luoghi più remoti, dai quali il trasporto del legname risultava difficoltoso, veniva prodotto il carbone vegetale, buon combustibile e più leggero da trasportare. Passeggiando nelle faggete, sono ancora oggi facilmente individuabili delle aree tonde e pianeggianti, di alcuni metri di diametro, prive di alberi, che spesso interrompono il pendio: sono le aree delle carbonaie, che venivano preparate con cura, accumulando i tronchi a formare un grande ed ordinato cumulo di forma semisferica, che veniva poi ricoperto con foglie e terra. Al centro del cumulo, aperto all’apice, veniva acceso il fuoco; così iniziava il lento processo che, nel corso di circa tre settimane, trasformava il legname in carbone. Il verde scuro e fitto delle faggete si interrompe, tra i 1000 ed i 1300 m di quota, negli alpeggi, piccoli insediamenti temporanei in cui un tempo si spostavano, durante la buona stagione, i pastori con le greggi. Sono caratterizzati da piccoli edifici in pietra, i “caselli”. Ha questo tipo di origine l’insediamento di Campaiana. Attorno agli alpeggi è stato eliminato il bosco per aprire superfici da utilizzare come prati falciati e come pascoli; queste aree possono essere definite praterie arborate. I maggiociondoli (Laburnum anagyroides) [foto 09], il sorbo montano (Sorbus aria), le betulle (Betula pendula) ed altre specie arbustive indicano uno stadio di passaggio verso la ricolonizzazione da parte del bosco. Queste praterie in primavera si caratterizzano per le vivaci fioriture di narcisi (Narcissus poéticus) [foto 15], di peonie (Paeonia officinalis) [foto 16] e di orchidee.
La Pania di Corfino
Da qualunque parte della Garfagnana ci si rivolga verso l’Appennino, il paesaggio appare dominato dalla Pania di Corfino [foto 17], le cui pareti calcaree si impongono sulle forme più dolci della catena appenninica, in cui predomina l’arenaria macigno. Le sue ripide pareti rocciose ricordano le forme più impervie delle vicine Alpi Apuane, e quasi sembrano isolarla dal manto boschivo circostante. La copertura vegetale del versante Sud-Ovest è piuttosto rada e discontinua: ampie radure (praterie intrasilvatiche) si alternano a boschetti di latifoglie miste, quali il cerro (Quercus cerris), il carpino nero (Ostrya carpinifolia), l’orniello (Fraxinus ornus), l’acero campestre (Acer campestre), il nocciolo (Corylus avellana), i sorbi (Sorbus aria, S. aucuparia) ed il faggio (Fagus sylvatica). Nelle ampie radure, invece, sono frequenti arbusti come il biancospino (Crataegus monogyna), il prugnolo (Prunus spinosa) ed il maggiociondolo (Laburnum anagyroides). Tra le latifoglie va ricordato il ciliegio canino (Prunus mahaleb) [foto 07] che in Toscana vive esclusivamente all’ Orecchiella, sulle Apuane e sul Monte Pisano. Sulle pareti rocciose, il grigio chiaro del calcare è chiazzato qua e là da macchie verdi scure: sono cespugli di leccio, una sclerofilla sempreverde mediterranea, che qua si trova in posizione eterotopica, in un ambiente diverso da quello abituale, ed assume il significato di un relitto. Il leccio sta qui a ricordare i lontani periodi del postglaciale, in cui le condizioni climatiche erano più favorevoli di quelle attuali e le piante termofile si erano diffuse anche in altitudine. In seguito, mentre il clima evolveva verso le condizioni attuali, le piante più termofile sono scese verso le zone costiere. Ma in qualche sito sono rimaste, accantonandosi sui roccioni, in posizione ben soleggiata, asciutta e riparata. Sul versante Sud-Est della Pania di Corfino, affacciato sul vallone delle Grottacce, si estendono boschi radi di latifoglie, tra le quali prevale nettamente il cerro (Quercus cerris). I versanti settentrionali, dalle forme più dolci, sono coperti invece da un manto boschivo, a faggeta; verso la vetta le ampie praterie arborate di Sella di Campaiana, disegnano dolcemente il pendio della montagna verso le rocce della vetta, che strapiombano nelle pareti meridionali, dando al paesaggio un aspetto ben diverso da quello precedente. In questo ambiente rupestre, abbarbicate sulle pareti rocciose calcaree vivono diverse specie di sassifraga fra cui la S.paniculata, la S.callosa, [foto 18;19] oltre a queste si trovano qui anche i semprevivi (Sempervivum montanum e S. tectorum) [foto 20;20a] e la draba (Draba aspera). Sui ghiaioni che bordano la base delle pareti, a testimoniare la costante azione clastica degli agenti atmosferici, si chiazzano del rosa intenso della saponaria rossa (Saponaria ocymoides) [foto 21], e del giallo oro della violacciocca appenninica (Erysimum pseudorhaeticum). Qui sono presenti alcune piante esclusive di un breve tratto appenninico e delle Alpi Apuane: la globularia delle Apuane (Globularia incanescens) [foto 03], il ranno delle Apuane (Rhamnus glaucophylla), il cerastio apuano (Cerastium apuanum) e poi al riparo dei roccioni più impervi vivono le peonie (Paeonia officinalis). [foto 22]
La Lamarossa
Nella faggeta si trovano talvolta zone particolarmente caratteristiche a livello ambientale sia per il loro aspetto naturale e sia per la flora che si instaura all’interno delle stesse. Sono aree palustri di altitudine, in cui vivono piante di climi freddi, che prediligono ambienti umidi; molte di queste sono specie rare e relitte. Tali zone sono conosciute come “Torbiere”.
Come nascono le torbiere?
Le torbiere derivano dai ghiacciai, il ritiro dei ghiacciai lascia libere numerose conche umide che rimangono tali solo dove il terreno è impermeabile. In queste conche, spesso limitate da morene che ne costituiscono delle “dighe” naturali, il fondo viene spesso impermeabilizzato da materiali argillosi e nella conca si forma, col tempo, un laghetto. Nei laghetti di origine glaciale si sedimentano detriti di vegetali morti, che si decompongono solo parzialmente poiché i microrganismi decompositori hanno bisogno di ossigeno, mentre sul fondo dei laghetti l’ambiente è asfittico. Attraverso un lento processo, dai detriti vegetali accumulatisi nasce la torba, che costituisce una tappa nella trasformazione della materia organica in carbone, attraverso un graduale arricchimento in carbonio. Il lago, viene progressivamente interrato, e sulla superficie della torbiera vivono gli sfagni [foto 23,24], che riescono a vivere solo d’aria e di pioggia, oltre che di luce. Gli sfagni, alimentano infatti la torbiera ininterrottamente: mentre si accrescono, e germogliano verso l’alto, la parte basale muore e, poiché non può venire completamente decomposta, diventa torba. Gli sfagni si comportano come spugne: riescono a trattenere quantità d’acqua pari a 15-30 volte il proprio peso, e sopportano periodi di disseccamento, riempiendo le proprie cellule d’aria per evitare che si danneggino.
Le torbiere derivano dai ghiacciai, il ritiro dei ghiacciai lascia libere numerose conche umide che rimangono tali solo dove il terreno è impermeabile. In queste conche, spesso limitate da morene che ne costituiscono delle “dighe” naturali, il fondo viene spesso impermeabilizzato da materiali argillosi e nella conca si forma, col tempo, un laghetto. Nei laghetti di origine glaciale si sedimentano detriti di vegetali morti, che si decompongono solo parzialmente poiché i microrganismi decompositori hanno bisogno di ossigeno, mentre sul fondo dei laghetti l’ambiente è asfittico. Attraverso un lento processo, dai detriti vegetali accumulatisi nasce la torba, che costituisce una tappa nella trasformazione della materia organica in carbone, attraverso un graduale arricchimento in carbonio. Il lago, viene progressivamente interrato, e sulla superficie della torbiera vivono gli sfagni [foto 23,24], che riescono a vivere solo d’aria e di pioggia, oltre che di luce. Gli sfagni, alimentano infatti la torbiera ininterrottamente: mentre si accrescono, e germogliano verso l’alto, la parte basale muore e, poiché non può venire completamente decomposta, diventa torba. Gli sfagni si comportano come spugne: riescono a trattenere quantità d’acqua pari a 15-30 volte il proprio peso, e sopportano periodi di disseccamento, riempiendo le proprie cellule d’aria per evitare che si danneggino.
Vegetazione di altitudine
Al di sopra delle faggete, sopra i 1700 m di quota, si estendono le “nude” [foto31], praterie montane costituite per lo più da brughiere ad ericacee come i mirtilli (Vaccinium sp.pl.), il ginepro nano (Juniperus communis) [foto 32]ecc.; in alcuni tratti queste brughiere ospitano specie rare e relitte, preziosi testimoni di passate vicende climatiche, come il rododendro (Rhododendrum ferrugineum) [foto 33]. Alle brughiere si alternano le praterie ed i pascoli, costituiti da erbe perenni, difatti, dove la brughiera è stata eliminata a favore del pascolo prevalgono graminacee quali il nardo (Nardus stricta), il paleo (Brachypodium genuense), la festuca (Festuca paniculata) [foto 34]. L’incendio e il pascolo sono sempre stati fattori determinanti l’evoluzione delle praterie: un basso carico di pascolamento favorisce la brughiera o la presenza nella prateria di specie quali il paleo e la festuca [foto 35], mentre il sovrappascolo favorisce la formazione di praterie a nardo e la diffusione di specie spinose. Fin dai tempi più antichi l’uomo ha cercato di ampliare gli spazi per il pascolo; l’analisi dei pollini fossili testimonia ripetuti episodi in cui l’uomo ha distrutto la brughiera con il fuoco a favore del pascolo. Nelle parti più alte delle catene montuose che cingono la Garfagnana, le Alpi Apuane a Sud-Ovest e l’Appennino a Nord-Est, si manifestano diversi ed affascinanti aspetti paesaggistici: da un lato le Apuane, aspre ed imponenti, con pareti calcaree quasi prive di alberi, e dall’altro il dolce e sinuoso profilo del crinale appenninico, dove le cime sono ammantate dal verde dei cespuglieti e dei pascoli. Sulle rocce delle creste si insedia un tipo particolare di vegetazione, detta casmofila (cioè legata alle spaccature ed alle fessure delle rocce), costituita da frutici ed erbe non graminoidi, che presenta adattamenti morfologici e fisiologici alle condizioni di vita molto selettive di questi ambienti, ed è spesso costituita da specie rare. In queste zone la copertura vegetale è scarsa e discontinua.
Il crinale appenninico
Questo tratto di catena appenninica, da M. Castellino fino a M. Le Forbici, attraverso M. Prado e M. Vecchio, supera i 2000 m di altitudine, toccando cime di 2054 m sul Monte Prado [foto 36]. Fondamentale per l’aspetto di cui godiamo oggi sono state formazioni glaciali che hanno lasciato segni visibili nel tempo e che oggi hanno contraddistinto la flora che troviamo su queste vette: sul crinale appenninico si trovano infatti ancora oggi numerose specie spinte da Nord fino alle nostre latitudini in seguito al peggioramento climatico quaternario, e che nel corso del tempo sono rimaste accantonate in questi stretti lembi di territorio, caratterizzati da basse temperature e innevamento abbondante e persistente. Tra le specie più significative delle brughiere del crinale c’è il rododendro rosso (Rhododendron ferrugineum); forse meno appariscenti ma altrettanto significative sono la moretta (Empetrum hermaphroditum), il ginepro nano (Juniperus communis) e l’erba lucciola gialla (Luzula lutea). Oltre al più comune mirtillo nero (Vaccinium myrtillus) ed al mirtillo del lupo (V. uliginosum) è qui presente anche il mirtillo rosso (Vaccinium vitis-idaea). Inoltre, in una area ristretta e localizzata del crinale, presso Monte Prado, vivono salici nani di tipo alpino, il salice erbaceo (Salix herbacea) ed il salice astato (Salix hastata). Sulle Alpi colonizzano rupi e detriti morenici scoperti dai ghiacciai nel breve periodo estivo; sull’Appennino sono molto rari ed hanno significato relittuale. Tra le fioriture più rare e più vistose c’è l’elegante genziana purpurea (Gentiana purpurea) [foto 37], la rarissima licnide alpina (Viscaria alpina) [foto 38] dai fiori fucsia, la saussurrea cordata (Saussurea discolor), il raro senecione biancheggiante (Jacobaea incana), ed il geranio argenteo (Geranium argenteum) con i delicati fiori rosa e le piccole foglie protette dalla setosa peluria argentea di colore cenerino. Molte sono le specie rupicole che colonizzano i roccioni silicei del crinale: la draba di Bertoloni (Draba aspera) [foto 39], la ventaglina alpina (Alchemilla saxatilis), l’astranzia minore (Astrantia minor) e diverse specie rare come i sempiterni di montagna (Antennaria dioica), il lino celeste (Linum alpinum subsp. gracilius) e il raponzolo alpino (Phyteuma hemisphaericum). La più significativa di queste specie è forse la primula appennina (Primula apennina), rarissima specie endemica del tratto di crinale appenninico compreso tra M. Orsaro e M. Vecchio, inclusa nella lista delle specie protette dalla convenzione di Berna (19 settembre 1979) relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa.
Gli adattamenti della flora di altitudine
Molte delle specie più significative della flora di altitudine, che spesso vivono abbarbicate su impervi roccioni, incuriosiscono l’osservatore per l’eleganza e la particolarità delle loro forme, sulle quali, sbocciano fiori vistosi dalle vivaci colorazioni. Le loro caratteristiche sono la risposta morfologica e funzionale alle condizioni ambientali nelle quali queste piante vivono. Negli ambienti di altitudine, com’è noto, le temperature possono scendere molto soprattutto nei periodi invernali quando la montagna si ammanta di una spessa coltre nevosa; nelle altre stagioni dell’anno tuttavia questi ambienti sono comunque caratterizzati da forti escursioni termiche causate anche da venti importanti che contribuiscono a rendere l’ambiente astio per la vegetazione che si trova a combattere con il disseccamento presente sia in estate che in inverno. In queste severe condizioni climatiche le piante presentano dimensioni molto ridotte: il nanismo è senz’altro una risposta alla carenza d’acqua, come pure al vento ed al peso della coltre nevosa, ma è dovuto anche alla luminosità che caratterizza gli ambienti di vetta, dove è forte il soleggiamento. E’ noto infatti che la luce inibisce gli ormoni della crescita delle piante per distensione cellulare. Così per sopportare meglio i forti venti ed il peso della coltre nevosa, le foglie di queste piante siano spesso riunite in fitte rosette, come nella draba di Bertoloni (Draba aspera), oppure disposte a formare dei pulvini, come nelle sassifraghe (Saxifraga sp. pl.) [foto 40], o bassi e compatti cuscinetti, come quelli della silene a cuscinetto (Silene acaulis) [foto 41]. Le foglie sono in genere piccole, perché una minore superficie consente una minore traspirazione, e più o meno fornite di peluria, come nel geranio argenteo (Geranium argenteum), nel senecione biancheggiante (Jacobaea incana) [foto 42], o nei sempiterni di montagna (Antennaria dioica) [foto 43], o rivestite da cuticole cerose che le rendono rigide e lucide (Globularia incanascens). I rivestimenti pelosi, come pure quelli cerosi, hanno la funzione di far “risparmiare” acqua, poiché proteggendo dai venti, diminuiscono la traspirazione. Inoltre non sono infrequenti piante a foglie carnose, che portano al loro interno riserve d’acqua, come le cosiddette piante grasse. Nota interessante relativa a questo tipo di vegetazione è la riproduzione: infatti, dal momento che pochi sono gli insetti impollinatori (i quali prendono il nome di prònubi) che si trovano ad altitudini cosi elevate, l’evoluzione ha dotato i fiori di dimensioni quasi sproporzionate e di colori vivaci al punto da attirare i pochi prònubi presenti e continuare così la specie.
Monte Orecchiella
Il manto boschivo dell’Orecchiella, tanto esteso e rigoglioso, non ha sempre avuto questo aspetto nel tempo. Nei primi decenni del secolo le condizioni economiche estremamente precarie delle popolazioni montane hanno determinato un eccessivo sfruttamento della montagna: la necessità di legname e di spazi per la pastorizia hanno provocato un diffuso disboscamento, al quale hanno presto fatto seguito disastrosi fenomeni di dissesto idrogeologico. A partire dalla metà del secolo il territorio è diventato demaniale e sono iniziate imponenti opere di risanamento della montagna. Sono state effettuate sistemazioni idraulico-forestali, ed una serie di interventi quali rimboschimenti nelle zone scoperte e miglioramenti dei boschi ancora presenti. Per i nuovi impianti sono state impiegate diverse specie di conifere quali pino nero (Pinus nigra), pino cembro (Pinus cembra), abete di Douglas (Pseudotsuga menziesii), larice (Larix decidua), considerate preparatrici del terreno, ed altre a rapida crescita. I boschi che erano ancora presenti, molto sfruttati ed intensamente ceduati, sono stati avviati all’alto fusto. Nella faggeta è stato reintrodotto l’abete bianco, a ricostruire l’originale composizione del bosco. Oggi, dopo diversi decenni, l’Orecchiella è il risultato di una lunga e costante opera di ricostruzione ambientale; in questi ecosistemi “ritrovati” vive un ricco popolamento faunistico, al quale viene prestata attenzione attraverso ricerche ed interventi mirati.
Funghi
La Garfagnana è regione ricca di funghi: ciò è dovuto a diversi fattori, quali le condizioni di umidità del clima, la ricchezza della flora e varietà delle forme di vegetazione. Recenti indagini sulla presenza di funghi nell’ Alta Garfagnana hanno permesso di individuarne oltre 200 specie, distribuite nei diversi ambienti, dai castagneti ai coltivi, alle faggete, fino alle praterie di altitudine. In tempi passati, quando l’economia era basata sulle attività di tipo agro-silvo-pastorale, i funghi costituivano una importante fonte di nutrimento, che integrava la scarsa dieta delle famiglie. Oggi non è venuto meno l’interesse per questi prodotti naturali e così gustosi, grazie anche al fatto che costituiscono una buona rendita economica per i raccoglitori locali. Tra le specie più apprezzate il primo posto spetta al noto porcino (Boletus gruppo edulis) [foto 44], frequente nei castagneti e nelle faggete; non meno ricercato, ma ormai sempre più raro, è l’ovolo o coccorò (Amanita caesarea) [foto 45] che vive nei castagneti e nei querceti, dove in primavera compare, con maggiore frequenza, il prugnolo (Calocybe gambosa) [foto 46]. AI margine dei boschi e nelle praterie non è raro vedere le mazze di tamburo (Macrolepiota procera), che devono il curioso nome alla forma del fungo nello stadio giovanile. Legate all’ambiente del castagneto sono alcune specie abbastanza frequenti, quali il cimballo viola (Lepista nuda), i verdoni (Russula virescens e Russula cvanoxantha) ed il gallinaccio (Cantharellus cibarius) [foto 47]. Ai bordi delle zone coltivate non è difficile osservare l’agarico chiomato (Coprinus comatus) [foto 48]. Alcune specie, circa una trentina, compaiono quasi esclusivamente nelle faggete, a quote maggiori, come ad esempio il prataiolo maggiore (Agaricus augustus) ed il porcino giallo-vinoso (Boletus regius), ed ancora altre specie particolarmente apprezzate, tra le quali il porcino (Boletus edulis), che si può trovare anche in mezzo ai mirtilli.